«Et si Adam Johnson devenait le verbe, dimanche prochain le sujet, jouer au golf le complément d’objet et monsieur Saito l’adverbe? Dimanche prochain accepte avec joie de venir Adamjohnsoner un jouer au golf monsieurSaito-ment. Et pan d’œil d’Aristote!»
E se Adam Johnson diventasse il verbo, domenica prossima il soggetto, giocare a golf il complemento oggetto e il signor Saito l’avverbio? Domenica prossima accetta con gioia di andare ad adamjohnsonare un-giocare-a-golf signor-Saitamente. E tanti saluti ad Aristotele!
Trapianto questo breve passo direttamente dal mio quadernino delle citazioni del liceo. La mia professoressa di italiano ce lo faceva compilare per tre motivi: 1) motivarci a fare della lettura una nostra abitudine; 2) scambiare libri e opinioni in classe; 3) imparare a scrivere copiando i nostri autori preferiti. Appuntare su un quaderno le frasi che ci erano piaciute di più era un modo per riflettere sul testo, su quelle parole che erano rimaste intrappolate nella nostra mente durante la lettura e che non erano riuscite più a scappare. Ricordo di aver scelto quel libro per puro caso. Con una mia compagna di classe sono andata in libreria: quel libro mi aveva colpito per la sua copertina. C’era una scritta in giapponese. All’epoca non avevo ancora iniziato a studiare la lingua nipponica ma l’interesse sfrenato per la cultura militava già da un pezzo. Per essere sicura di fare un acquisto azzeccato ho letto anche la quarta di copertina: la storia era ambientata in Giappone. Perfetto. Non mi è servito sapere altro. Ho riletto il libro in lingua originale mentre studiavo all’università e l’ho trovato ancora più coinvolgente, perché dopo il mio soggiorno studio in Giappone mi sono immedesimata fino in fondo in quello smarrimento verso un sistema del lavoro che si basa sul formalismo gerarchico. Uno smarrimento a tratti malinconico perché quando vivi e studi nel paese che hai sempre sognato di visitare tendi a far finta di non vederne gli aspetti negativi, ma del resto la cultura giapponese è famosa per i suoi duri contrasti.
Lo stesso libro mi è tornato in mente di recente. In questo primo anno da freelance ho cercato la mia strada, ho seguito i consigli di colleghe e colleghi più esperti e ho avuto modo di riflettere su quello che è il nostro lavoro. Capita in continuazione di scambiare opinioni sulla nostra attività professionale e mi sono resa conto di quanto sia diversa questa quotidianità dall’immagine accademica del traduttore che si “contempla” durante gli studi. Entrare in campo per giocare la vera partita è ben diverso dall’allenamento, seppur mirato e approfondito. Mi basta pensare al corso di Teoria della Traduzione del mio master in Inghilterra. Si potrebbe riassumere in poche parole: tutto e il contrario di tutto. Un po’ come le lezioni di filosofia al liceo per cui valeva la stessa regola, ossia ogni nuova teoria confuta la precedente. Invece adesso che si scende in campo si parla di blog e personal branding, di quale sia il CAT-tool più conveniente, di come aprire la partita iva e di dichiarazioni trimestrali… Sono questi i momenti in cui ho voglia di tornare al buon vecchio dibattito accademico sulla traduzione. A voi non piacerebbe farvi quattro risate leggendo tomi impolverati che mettono nero su bianco fantasmagoriche teorie sociolinguistiche? Non vorreste far lavorare in modo proficuo la vostra amigdala cercando di capire le farneticazioni di Bourdieu e Luhmann? Da una parte concordo sul fatto di aver appena elencato alcune delle peggiori torture al mondo per gli studenti di traduzione, dall’altra lo trovo infinitamente più interessante (una posizione che deriva probabilmente dall’odio viscerale che provo verso qualsiasi cosa sia vagamente legata agli aspetti economici e commerciali di una professione) e soprattutto più semplice da un punto di vista… pratico. È sufficiente sapere che il traduttore lavora su dei testi. Tutto il resto è noia per lettori e committenti. A loro non interessa sapere se e come il traduttore abbia addomesticato il libro X o usato un approccio sociolinguistico per localizzare il sito internet Y. Sono gli “addetti ai lavori” a porsi delle domande, primi tra tutti noi poveri traduttori che rischiamo di perdere di vista la nostra identità perché dobbiamo trasformarci in tecnici, poeti, cuochi, doppiatori e avvocati (e pure genitori quando raggiungiamo il livello ADVANCED) in base alla commissione del momento.
Nel Medioevo esistevano le arti liberali e le arti meccaniche. Le prime indicavano i lavori intellettuali basati sul sapere, ai quali si accedeva grazie allo studio e alla conoscenza accademica; le seconde si riferivano ai lavori manuali, basati sul fare e appresi con la pratica e il tirocinio. Oggidì starem dunque a parlar di professioni e mestieri, sebben chiara non è lor distinzion come al tempo di dame e cavalieri. Orsù, bel giuoco ne potrem ricavare! Ove esiliar il traduttor tra saper e fare? Forse non è particolarmente d’aiuto paragonare la figura versatile e moderna del traduttore a quelle statiche e… datate del Medioevo, ma di sicuro l’azzardo può fornire degli interessanti spunti di riflessione. Proviamo a distinguere per un secondo la professione del traduttore e il mestiere del traduttore secondo le caratteristiche delle cosiddette arti medievali. Gli anni trascorsi a studiare all’università, i dubbi che hanno alimentato la crescita personale e professionale all’inizio della carriera, il ruolo che ricopriamo tra due culture distanti tra loro e la funzione che svolgiamo in relazione alla sfera del sapere – sì, pensiamola in grande perché senza traduttori la conoscenza umana non avrebbe potuto viaggiare da popolo a popolo nel corso dei millenni – sembrano aderire perfettamente al primo concetto, quello di arte liberale. Ma tradurre non è solo questo. È l’arte di cui ci appropriamo giorno dopo giorno esaminando centinaia di testi diversi. È l’abilità che raggiungiamo nel dare voce a un autore straniero senza che il lettore se ne accorga. È l’attenzione a quei particolari che fanno la differenza, alla cura che mettiamo nella presentazione della nostra immagine, fattori che fanno pensare al lavoro certosino di un artigiano, ossia a un’arte meccanica. Allor simbianza non v’è di risposta alcuna pe ‘l quesito che posto fu al volgo sine fortuna (fine del delirio compositivo alla Ludovico Ariosto, nda).
In realtà una mezza risposta l’ho trovata nel titolo del libro di Amélie Nothomb Stupore e tremori. Una risposta che si sofferma su cosa prova il traduttore, non su chi sia o cosa faccia. Non vi è mai capitato di scoprire un termine straniero e rimanerne affascinati? Non vi siete mai stupiti della traduzione di un’espressione in un’altra lingua? A me capita di continuo e spero capiti a molti altri traduttori! In un certo senso lo stupore è qualcosa di necessario per il nostro lavoro, perché senza di esso verrebbe a mancare la passione per quello che facciamo e la creatività che contraddistingue il nostro operato. Chi sceglie di intraprendere un percorso lavorativo legato alla traduzione, sia scritta che orale, prima o poi si chiede una cosa: perché traduco? Questo è il problema (amletico) che catapulta un traduttore davanti allo specchio almeno una volta nella vita. A volte però rispondere è più semplice di quanto si pensi: perché mi piace; perché mi appassiona; perché mi rende libero/a; perché non smetto mai di imparare; perché mi fa stare bene; perché [inserire commento positivo per sfatare il mito del traduttore pessimista in pigiama e ciabatte che lavora sul divano ricoperto di pop corn della sera prima].
La capacità di provare ancora stupore è essenziale nel processo della creatività
Posso giurare di essere andata in tilt per giorni quando ho scoperto che la civetta francese (chouette) e la civetta marchigiana (cioétta) sono praticamente la stessa cosa. Per non parlare del giapponese e del cinese che richiedono comprovate abilità associative per comprendere la logica dietro la traduzione di alcuni termini: il carattere che indica il concetto di riposo – e quindi vacanze, pausa pranzo, ecc. – è formato dai radicali “uomo” e “albero”, perché… l’uomo appoggiato al tronco dell’albero si riposa. Oppure il termine chiacchierone viene tradotto in giapponese con kuchi ga aita, letteralmente avere la bocca sempre aperta. ISN’T THAT MIND-BLOWING? Non so voi, ma uno dei motivi per cui traduco è questo: non smettere mai di stupirmi. E i tremori di cui tanto parla Nothomb? Beh, sono le paure e i dubbi. I “timori” che ci perseguitano quando ci troviamo faccia a faccia con i nostri limiti. Testi incomprensibili e frustranti dal punto di vista traduttivo, scadenze che sfiorano la fantascienza, compensi improponibili, orari che non combaciano e imprevisti che non permettono di fare tutto quello che avevamo pianificato nella giornata. Insomma per farla breve, il rovescio della medaglia, quello che crea scompiglio nella vita già scompigliata di un traduttore.
A distanza di qualche anno, Amélie Nothomb mi ha fatto capire che bastano soltanto due parole per definire un traduttore e che non serve discutere troppo se chiamarla professione, mestiere, occupazione, lavoro. Stupore e tremori. BOOM! Ammettetelo, non è una definizione molto più efficace?